Nell’epoca in cui tutto, ma proprio tutto, è mercato, succede che il governo italiano decida che 45 mila euro a testa siano il prezzo da pagare per limitare (poiché evitare non si può) una bruttissima figura politica sullo scenario internazionale. La materia è fra le più spiacevoli, giacché si parla di tortura e dell’incapacità dello stato italiano di garantire il rispetto dei diritti fondamentali e un equo corso della giustizia quando questi siano stati violati. Ossia ciò che sta scritto nella sentenza del 7 aprile 2015 dalla Corte europea per i diritti umani sul caso Cestaro vs Italia in merito alla violenta “perquisizione” della scuola Diaz nel luglio 2001. Un altro centinaio di ricorsi analoghi a quello di Cestaro – per la Diaz e per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto – pendono ancora a Strasburgo e il governo italiano ha mobilitato l’Avvocatura dello stato per convincere i ricorrenti a ritirare le proprie istanze. Non è bello – devono aver pensato a Roma – subire una pioggia di condanne così sgradevoli, occorre provvedere. Almeno limitiamone il numero.

Gli accordi raggiunti, una trentina, riguardano solo una parte dei ricorsi: molti dei malcapitati passati fra Diaz e Bolzaneto, a 15 anni dai fatti e a sentenza-Cestaro ottenuta, preferiscono accettare l’obolo e chiudere i conti con lo Stato; ma ce ne sono molti altri (io fra questi) che mettono al primo posto la questione di principio, anzi di giustizia.

Il punto è che l’attivismo dell’Avvocatura dello stato è l’altra faccia dell’ignavia di parlamento e governo. Un’ignavia che corrisponde a una precisa scelta politica: farsi beffe della sentenza della Corte di Strasburgo. La quale, è bene ricordarlo, ha stabilito che il cittadino Cestaro non ha ottenuto giustizia, nonostante le condanne inflitte a 25 funzionari e dirigenti. Non c’è stata giustizia perché prescrizione e indulto hanno quasi cancellato le pene; perché gli autori materiali dei pestaggi non sono mai stati identificati; perché la polizia di stato ha ostacolato il corso della giustizia.

La Corte, nel condannare l’Italia, ha dato anche precise indicazioni d’intervento, al fine di rimediare alla sua “strutturale incapacità” di garantire il rispetto dei diritti fondamentali: sottoporre a procedimenti disciplinari (con sospensioni e rimozioni) i poliziotti condannati; approvare una legge sulla tortura; obbligare gli agenti a portare codici identificativi sulle divise.

Governo a parlamento, da aprile a oggi, si sono presi gioco della Corte. Il premier Renzi aveva sbrigativamente indicato, come risposta a Strasburgo, l’approvazione di una legge sulla tortura, dimenticando tutto il resto. Ma nemmeno questa rispostina è arrivata a compimento, perché il parlamento è tenuto in scacco dal “partito della polizia”, un coacervo di soggetti e di interessi che comprende i vertici dell’apparato, gran parte dei sindacati di settore e i numerosi sponsor politici delle forze dell’ordine.

La Camera, nell’aprile scorso, approvò in fretta e furia, sull’onda dello scandalo suscitato dalla sentenza Cestaro, un testo di legge minimalista e arretrato (la tortura come reato generico e non specifico del pubblico ufficiale, la prescrizione ancora possibile), cercando di non scontentare troppo le nostre forze dell’ordine, da sempre contrarie all’introduzione del crimine nell’ordinamento. Ma anche quel testo era troppo e così abbiamo assistito nell’estate scorsa a un’autentica sollevazione del “partito della polizia”, con mobilitazioni di piazza dei sindacati e infuocati interventi in parlamento dei capi di polizia, carabinieri e finanza, ascoltati nella commissione del senato chiamata a esaminare il testo uscito da Montecitorio. In quale altro paese potrebbe avvenire qualcosa di simile?

Alla fine è stato approvato un testo surreale e imbarazzante: un caso raro di legge sulla tortura, ma non contro la tortura, visto che l’incriminazione scatterebbe solo in caso di violenze reiterate, ammettendo quindi come leciti atti di tortura singola. Un testo assurdo, che il presidente della repubblica non potrebbe firmare. In aggiunta, altro gesto beffardo, il ministro Alfano ha inventato una “soluzione” per i codici identificativi: l’Italia potrebbe introdurli, ma solo per identificare i reparti, non i singoli. Sembra uno scherzo ma è un drammatico indicatore dello stato di salute della cultura democratica nel nostro paese. Tanto per fare un esempio non casuale, nell’inchiesta Diaz i pm conoscevano i reparti impiegati nell’operazione – senza bisogno dei codici di Alfano – ma non sono riusciti a identificare i singoli autori delle violenze, perciò gli abusi alla scuola Diaz sono rimasti in gran parte impuniti, portando l’Italia alla condanna alla Corte di Strasburgo.

In sintesi, stiamo assistendo a una penosa vicenda politica, nella quale il nostro governo, anziché rispettare le prescrizioni della Corte europea, tenta di ridurre l’impatto delle sue annunciate sentenze: meno sono, meglio è. I 45 mila euro offerti alle vittime di Genova G8 sono il prezzo da pagare all’analfabetismo democratico della politica italiana.

L’obiettivo è minimizzare la figuraccia; la sostanza non conta. Chissenefrega se abbiamo regole inadeguate; se abbiamo forze di polizia insofferenti alle regole correnti nelle altre democrazie europee; se decine di persone, umiliate oltre ogni misura nel luglio 2001 alla Diaz e a Bolzaneto, sono costrette a rivolgersi a Strasburgo per tentare di spingere il vile parlamento del proprio paese ad assumersi le responsabilità che gli spettano.

Lorenzo Guadagnucci, da altreconomia.it

(12 gennaio 2016)

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